Il D.L.C.p.S. del 3 ottobre 1947 n.1222 (ratificato con legge 9 Aprile 1953 n. 292) realizzò un sistema di collocamento obbligatorio nelle imprese private a favore dei mutilati ed invalidi del lavoro.
Secondo l'avviso di un certo orientamento dottrinale il sistema così istituito ricalcava quello previsto dalla normativa a favore degli invalidi di guerra. Secondo il pensiero di altri, invece, il decreto, nonostante le indubbie analogie con quelle leggi, presentava spiccate differenziazioni di disciplina rispondenti all'intervenuta evoluzione del sistema del collocamento .
V'era, infine, chi, nella dottrina, affermava che il decreto ponesse in essere una procedura per le assunzioni obbligatorie del tutto originale .
Il provvedimento in questione, in realtà, si caratterizzò, piu' che altro, per un eccesso di laconicità (riguardo, peraltro punti non secondari della disciplina). Le sue lacune costrinsero la giurisprudenza ad un'opera di interpretazione creativa procedente, per forza di cose, in modo empirico, incerto e, spesse volte, contraddittorio. L'infelice tecnica di redazione adottata offrì lo spunto per la proposizione della questione di legittimità costituzionale del decreto, per contrasto con gli artt. 3, 38, 41 e 42 della Costituzione; la Corte Costituzionale si pronunciò per la legittimità del decreto e dei sistemi di collocamento obbligatorio in generale .
Ai fini del raggiungimento della percentuale prescritta dal decreto, il datore di lavoro poteva tener conto degli invalidi del lavoro che egli avesse assunto già prima dell'entrata in vigore del decreto (art. 1 3° comma). Questi, per la prevalente dottrina e giurisprudenza, dovevano riportare un'invalidità non inferiore al 40 per cento (quella cioè richiesta ai fini dell'ammissione al collocamento obbligatorio), onde evitare troppo agevoli e generalizzate coperture delle quote d'obbligo. A fare le spese dell'adozione di questa soluzione interpretativa erano, però, gli invalidi c.d. "minori" eventualmente già assunti, i quali, benché di maggiore efficienza lavorativa, non risultavano, in realtà, utili al datore ai fini del raggiungimento della percentuale prescritta e venivano così a correre il concreto rischio del licenziamento.
Dottrina e giurisprudenza dovettero anche affrontare il problema della computabilità o meno del lavoratore minorato che in costanza del rapporto avesse superato il limite d'età o quello minimo di riduzione della capacità lavorativa al di sopra dei quali non è possibile usufruire del collocamento agevolato. Dalla parte della tesi negativa, accolta dalla Cassazione , v'erano ragioni di logica giuridica, forse eccedenti in rigidità ed astrattezza. Dall'altra parte la dottrina, che argomentava a favore della computabilità di tali soggetti, sulla scorta di molteplici considerazioni: si constatava, per esempio, come fosse da ritenersi maggiore l'invalidità di un minorato che fosse anche anziano, si affermava, poi, la presumibilità di un trattamento di benevolenza del legislatore nei confronti del datore che, ancor prima dell'esistenza del decreto, avesse adempiuto spontaneamente all'obbligo di assunzione . Infine, la dottrina sottolineava la difficile quantificazione del parametro della "riacquistata capacità lavorativa"; si affermava che la valutazione di questo "recupero" non poteva effettuarsi, semplicemente, su di un piano astratto, ma, piu' problematicamente, con riferimento concreto a quell'ambiente di lavoro in cui esso si era manifestato . Si aggiungevano, naturalmente, considerazioni squisitamente umanitarie a favore dei minorati anziani e l'amara constatazione che, seguendo l'orientamento della Cassazione, si finiva cinicamente col punire quell'invalido che, spesso meritoriamente ed a costo di molteplici sacrifici, era riuscito a rimpossessarsi di parte dell'abilità lavorativa perduta .
Le Sezioni dell'A.N.M.I.L. erano preposte alla compilazione del ruolo dei mutilati ed invalidi collocabili ed erano tenute ad inviare trimestralmente copia di esso all'Ufficio provinciale del lavoro nonché alla sede centrale dell'assicurazione. Finivano qui i compiti dell'associazione mutilati ed invalidi. Ad essa, stante la sua natura privatistica, fu riservato un ruolo secondario.
Era la Commissione, invece, e quindi lo stesso Ufficio provinciale del lavoro (la cui competenza derivava anche dalla legge sul collocamento ordinario) a presiedere al collocamento speciale ed, in effetti, a provvedere alla formazione dei ruoli tenuti presso le sezioni. Infatti secondo l'art. 4 la Commissione aveva il compito di dichiarare l'idoneità al lavoro dei mutilati ed invalidi, distinguendoli per categorie professionali, e di presiedera al loro collocamento.
L'art. 4 usava, a quest'ultimo proposito, l'espressione "e ne cura il collocamento". Ora, non solo sfuggiva il significato di tale passo del decreto, ma risultava non molto chiaro altresì, il rapporto che intercorreva fra la valutazione dell'A.N.M.I.L e quella della Commissione, quale delle due fosse decisiva, e, nell'eventualità avesse dovuto esserlo quella della Commissione, perché fra i suoi membri non comparisse neanche un medico.
La soluzione della questione circa il senso dell'espressione "e ne cura il collocamento", era strettamente collegata a quella riguardante la situazione giuridica degli iscritti nei ruoli (l'art. 2 parlava, a proposito di questi, di un "diritto ad essere assunti"). Ebbene: secondo alcuni, curare non significava né imporre né provvedere ma semplicemente attribuire all'iscritto una qualificazione che, lungi dall'investirlo di un diritto all'assunzione, rendeva quest'ultima idonea ai fini della copertura della percentuale prescritta di posti riservati. Secondo altri , l'espressione "e ne cura il collocamento" doveva essere intesa come richiamo ai poteri e funzioni attribuite dalla n. 264 del 1949 agli Uffici del collocamento. Con riferimento a quella legge dovevano, quindi, sia determinarsi i casi in cui il datore di lavoro era tenuto alla richiesta nominativa o numerica, sia chiarire la situazione giuridica dell'iscritto nelle liste. Venendo così ad operare i principi in materia di collocamento ordinario dall'inserimento nelle liste sarebbe dovuta derivare in favore del minorato iscritto solamente una posizione di mero interesse ed aspettativa; dall'avviamento però sarebbe disceso un vero e proprio diritto all'assunzione. Questa era anche la conclusione cui pervenne, in seguito a ripetute oscillazioni, la Cassazione.
In caso di rifiuto di assunzione il lavoratore avviato dalla Commissione aveva quindi diritto ad un risarcimento del danno. Questo era escluso nel caso che il datore di lavoro, fornendo la prova dell'erroneità del giudizio della Commissione, non avesse motivato il rifiuto d'assunzione rilevando la presenza nell'invalido designato di quelle condizioni che ne avrebbero giustificato l'immediato licenziamento .
Ricordiamo, comunque, che prima di pervenire a questo orientamento circa la situazione giuridica soggettiva dell'avviato, la giurisprudenza, dopo una serie di decisioni contraddittorie, era giunta ad attribuire alla Commissione addirittura un potere di collocamento d'ufficio del lavoratore invalido .
La dottrina dubitò subito della razionalità di tale soluzione, soprattutto per il fatto che, non essendo previsto dal decreto la possibilità di inserire le ragioni del datore all'interno di questo procedimento d'avviamento tutto amministrativo, si rendevano inevitabili successive contestazioni e liti, e si rischiava di trascurare le situazioni peculiari di ogni singola azienda (sebbene all'interno dello stesso orientamento giurisprudenziale tali esigenze fossero state comunque considerate e, per fare un esempio, argomentando dalla distinzione fra sessi prevista dall'art. 7 si affermò il diritto del datore di lavoro a che la Commissione tenesse conto, nell'invio di personale, del rapporto esistente fra lavoratori uomini e donne all'interno dell'azienda) .
Era data facoltà ai datori di lavoro di risolvere il rapporto (art. 5), qualora, a giudizio dell'Istituto nazionale infortuni sul lavoro e dell'Ispettorato del lavoro, fosse risultato un aggravamento dell'invalidità, tale da impedire al lavoratore di prestare le mansioni per le quali era stato assunto.
I dubbi della dottrina nascevano dal fatto che di questo necessario legame fra la continuazione del rapporto e le mansioni affidate al momento dell'assunzione, non era dato rinvenire traccia nel sistema della legge. Le critiche si rafforzavano se si ricordava che implicito presupposto della legge era l'imposizione al datore di lavoro dell'onere di ricerca delle mansioni piu' rispondenti alle caratteristiche del lavoratore invalido. Concludendo diversamente, si sarebbero potute offrire comode scappatoie dagli obblighi di legge.
La risoluzione era possibile anche quando l'Ispettorato avesse accertato la perdita totale della capacità lavorativa o il possibile pregiudizio per la salute ed incolumità dei compagni di lavoro e la sicurezza degli impianti. Anche nel caso del rischio connesso all'impiego del minorato la dottrina non potè non rilevare come il suo sorgere sarebbe potuto dipendere, in molti casi, da scelte errate dell'imprenditore e come, quindi, fosse assurdo far nascere da ciò un via libera al licenziamento.
Secondo un altro orientamento dottrinale, peraltro conforme alla giurisprudenza della Cassazione, l'art. 5 non individuava le uniche cause possibili di risoluzione del rapporto con l'invalido del lavoro, ma ne aggiungeva di speciali a quelle d'ordine generale. Quindi, non restringendo le ipotesi di licenziamento e lasciando salva la facoltà di recesso ad nutum dell'imprenditore (fermo però l'obbligo di assumere un altro invalido a copertura del posto riservato), l'art. 5 era ben lungi dal voler costruire per l'invalido (come inizialmente aveva affermato qualche giuduce di merito) una situazione giuridica di diritto alla conservazione del posto o ad una durata minima del rapporto di lavoro e lasciava, invece, inalterata la facoltà del datore di lavoro di recedere ad nutum .
Non era chiaro se dal licenziamento per queste vie ottenuto derivasse o meno una incollocabilità assoluta dell'invalido. Non era neanche pacifico se, come si era affermato in giurisprudenza , il datore di lavoro avrebbe potuto invocare il giudizio dell'Ispettorato circa il ricorrere delle condizioni cui all'art. 2, prima dell'instaurazione del rapporto, al fine di rifiutare l'assunzione. Avallando questa ipotesi interpretativa si sarebbe potuto configurare il tutto come una vera e propria procedura di annullamento per vizi di merito dello stesso atto amministrativo di assegnazione.
Seguì la legge 14 Ottobre 1966 n. 851, la quale fra l'altro adotto quel principio dello scorrimento, già adottato dal legislatore in precedenza: qualora non vi fossero stati invalidi del lavoro da collocare le pp.aa. e le aziende private individuate all'art.1 del D.L.C.p.S. 1222/1947 erano tenute a coprire la percentuale d'obbligo con orfani e vedove di caduti sul lavoro, cui peraltro la legge espressamente estendeva le norme allora vigenti per l'ammissione agli impieghi ed il collocamento obbligatorio degli orfani e vedove di guerra (fermo restando il rispetto delle aliquote cui alla L. n. 1228/1965 concernente provvedimenti in favore delle vedove e degli orfani di guerra e delle vedove e degli orfani dei caduti per causa di servizio).
Per quanto riguardava le assunzioni presso le pp.aa. la legge introduceva un meccanismo di scorrimento, ancora piu' "evoluto", che considerava tutte le categorie protette (art. 15).
Il D.L.C.p.S. del 3 ottobre 1947 n.1222 (ratificato con legge 9 Aprile 1953 n. 292) realizzò un sistema di collocamento obbligatorio nelle imprese private a favore dei mutilati ed invalidi del lavoro.
Secondo l'avviso di un certo orientamento dottrinale il sistema così istituito ricalcava quello previsto dalla normativa a favore degli invalidi di guerra. Secondo il pensiero di altri, invece, il decreto, nonostante le indubbie analogie con quelle leggi, presentava spiccate differenziazioni di disciplina rispondenti all'intervenuta evoluzione del sistema del collocamento .
V'era, infine, chi, nella dottrina, affermava che il decreto ponesse in essere una procedura per le assunzioni obbligatorie del tutto originale .
Il provvedimento in questione, in realtà, si caratterizzò, piu' che altro, per un eccesso di laconicità (riguardo, peraltro punti non secondari della disciplina). Le sue lacune costrinsero la giurisprudenza ad un'opera di interpretazione creativa procedente, per forza di cose, in modo empirico, incerto e, spesse volte, contraddittorio. L'infelice tecnica di redazione adottata offrì lo spunto per la proposizione della questione di legittimità costituzionale del decreto, per contrasto con gli artt. 3, 38, 41 e 42 della Costituzione; la Corte Costituzionale si pronunciò per la legittimità del decreto e dei sistemi di collocamento obbligatorio in generale .
Ai fini del raggiungimento della percentuale prescritta dal decreto, il datore di lavoro poteva tener conto degli invalidi del lavoro che egli avesse assunto già prima dell'entrata in vigore del decreto (art. 1 3° comma). Questi, per la prevalente dottrina e giurisprudenza, dovevano riportare un'invalidità non inferiore al 40 per cento (quella cioè richiesta ai fini dell'ammissione al collocamento obbligatorio), onde evitare troppo agevoli e generalizzate coperture delle quote d'obbligo. A fare le spese dell'adozione di questa soluzione interpretativa erano, però, gli invalidi c.d. "minori" eventualmente già assunti, i quali, benché di maggiore efficienza lavorativa, non risultavano, in realtà, utili al datore ai fini del raggiungimento della percentuale prescritta e venivano così a correre il concreto rischio del licenziamento.
Dottrina e giurisprudenza dovettero anche affrontare il problema della computabilità o meno del lavoratore minorato che in costanza del rapporto avesse superato il limite d'età o quello minimo di riduzione della capacità lavorativa al di sopra dei quali non è possibile usufruire del collocamento agevolato. Dalla parte della tesi negativa, accolta dalla Cassazione , v'erano ragioni di logica giuridica, forse eccedenti in rigidità ed astrattezza. Dall'altra parte la dottrina, che argomentava a favore della computabilità di tali soggetti, sulla scorta di molteplici considerazioni: si constatava, per esempio, come fosse da ritenersi maggiore l'invalidità di un minorato che fosse anche anziano, si affermava, poi, la presumibilità di un trattamento di benevolenza del legislatore nei confronti del datore che, ancor prima dell'esistenza del decreto, avesse adempiuto spontaneamente all'obbligo di assunzione . Infine, la dottrina sottolineava la difficile quantificazione del parametro della "riacquistata capacità lavorativa"; si affermava che la valutazione di questo "recupero" non poteva effettuarsi, semplicemente, su di un piano astratto, ma, piu' problematicamente, con riferimento concreto a quell'ambiente di lavoro in cui esso si era manifestato . Si aggiungevano, naturalmente, considerazioni squisitamente umanitarie a favore dei minorati anziani e l'amara constatazione che, seguendo l'orientamento della Cassazione, si finiva cinicamente col punire quell'invalido che, spesso meritoriamente ed a costo di molteplici sacrifici, era riuscito a rimpossessarsi di parte dell'abilità lavorativa perduta .
Le Sezioni dell'A.N.M.I.L. erano preposte alla compilazione del ruolo dei mutilati ed invalidi collocabili ed erano tenute ad inviare trimestralmente copia di esso all'Ufficio provinciale del lavoro nonché alla sede centrale dell'assicurazione. Finivano qui i compiti dell'associazione mutilati ed invalidi. Ad essa, stante la sua natura privatistica, fu riservato un ruolo secondario.
Era la Commissione, invece, e quindi lo stesso Ufficio provinciale del lavoro (la cui competenza derivava anche dalla legge sul collocamento ordinario) a presiedere al collocamento speciale ed, in effetti, a provvedere alla formazione dei ruoli tenuti presso le sezioni. Infatti secondo l'art. 4 la Commissione aveva il compito di dichiarare l'idoneità al lavoro dei mutilati ed invalidi, distinguendoli per categorie professionali, e di presiedera al loro collocamento.
L'art. 4 usava, a quest'ultimo proposito, l'espressione "e ne cura il collocamento". Ora, non solo sfuggiva il significato di tale passo del decreto, ma risultava non molto chiaro altresì, il rapporto che intercorreva fra la valutazione dell'A.N.M.I.L e quella della Commissione, quale delle due fosse decisiva, e, nell'eventualità avesse dovuto esserlo quella della Commissione, perché fra i suoi membri non comparisse neanche un medico.
La soluzione della questione circa il senso dell'espressione "e ne cura il collocamento", era strettamente collegata a quella riguardante la situazione giuridica degli iscritti nei ruoli (l'art. 2 parlava, a proposito di questi, di un "diritto ad essere assunti"). Ebbene: secondo alcuni, curare non significava né imporre né provvedere ma semplicemente attribuire all'iscritto una qualificazione che, lungi dall'investirlo di un diritto all'assunzione, rendeva quest'ultima idonea ai fini della copertura della percentuale prescritta di posti riservati. Secondo altri , l'espressione "e ne cura il collocamento" doveva essere intesa come richiamo ai poteri e funzioni attribuite dalla n. 264 del 1949 agli Uffici del collocamento. Con riferimento a quella legge dovevano, quindi, sia determinarsi i casi in cui il datore di lavoro era tenuto alla richiesta nominativa o numerica, sia chiarire la situazione giuridica dell'iscritto nelle liste. Venendo così ad operare i principi in materia di collocamento ordinario dall'inserimento nelle liste sarebbe dovuta derivare in favore del minorato iscritto solamente una posizione di mero interesse ed aspettativa; dall'avviamento però sarebbe disceso un vero e proprio diritto all'assunzione. Questa era anche la conclusione cui pervenne, in seguito a ripetute oscillazioni, la Cassazione.
In caso di rifiuto di assunzione il lavoratore avviato dalla Commissione aveva quindi diritto ad un risarcimento del danno. Questo era escluso nel caso che il datore di lavoro, fornendo la prova dell'erroneità del giudizio della Commissione, non avesse motivato il rifiuto d'assunzione rilevando la presenza nell'invalido designato di quelle condizioni che ne avrebbero giustificato l'immediato licenziamento .
Ricordiamo, comunque, che prima di pervenire a questo orientamento circa la situazione giuridica soggettiva dell'avviato, la giurisprudenza, dopo una serie di decisioni contraddittorie, era giunta ad attribuire alla Commissione addirittura un potere di collocamento d'ufficio del lavoratore invalido .
La dottrina dubitò subito della razionalità di tale soluzione, soprattutto per il fatto che, non essendo previsto dal decreto la possibilità di inserire le ragioni del datore all'interno di questo procedimento d'avviamento tutto amministrativo, si rendevano inevitabili successive contestazioni e liti, e si rischiava di trascurare le situazioni peculiari di ogni singola azienda (sebbene all'interno dello stesso orientamento giurisprudenziale tali esigenze fossero state comunque considerate e, per fare un esempio, argomentando dalla distinzione fra sessi prevista dall'art. 7 si affermò il diritto del datore di lavoro a che la Commissione tenesse conto, nell'invio di personale, del rapporto esistente fra lavoratori uomini e donne all'interno dell'azienda) .
Era data facoltà ai datori di lavoro di risolvere il rapporto (art. 5), qualora, a giudizio dell'Istituto nazionale infortuni sul lavoro e dell'Ispettorato del lavoro, fosse risultato un aggravamento dell'invalidità, tale da impedire al lavoratore di prestare le mansioni per le quali era stato assunto.
I dubbi della dottrina nascevano dal fatto che di questo necessario legame fra la continuazione del rapporto e le mansioni affidate al momento dell'assunzione, non era dato rinvenire traccia nel sistema della legge. Le critiche si rafforzavano se si ricordava che implicito presupposto della legge era l'imposizione al datore di lavoro dell'onere di ricerca delle mansioni piu' rispondenti alle caratteristiche del lavoratore invalido. Concludendo diversamente, si sarebbero potute offrire comode scappatoie dagli obblighi di legge.
La risoluzione era possibile anche quando l'Ispettorato avesse accertato la perdita totale della capacità lavorativa o il possibile pregiudizio per la salute ed incolumità dei compagni di lavoro e la sicurezza degli impianti. Anche nel caso del rischio connesso all'impiego del minorato la dottrina non potè non rilevare come il suo sorgere sarebbe potuto dipendere, in molti casi, da scelte errate dell'imprenditore e come, quindi, fosse assurdo far nascere da ciò un via libera al licenziamento.
Secondo un altro orientamento dottrinale, peraltro conforme alla giurisprudenza della Cassazione, l'art. 5 non individuava le uniche cause possibili di risoluzione del rapporto con l'invalido del lavoro, ma ne aggiungeva di speciali a quelle d'ordine generale. Quindi, non restringendo le ipotesi di licenziamento e lasciando salva la facoltà di recesso ad nutum dell'imprenditore (fermo però l'obbligo di assumere un altro invalido a copertura del posto riservato), l'art. 5 era ben lungi dal voler costruire per l'invalido (come inizialmente aveva affermato qualche giuduce di merito) una situazione giuridica di diritto alla conservazione del posto o ad una durata minima del rapporto di lavoro e lasciava, invece, inalterata la facoltà del datore di lavoro di recedere ad nutum .
Non era chiaro se dal licenziamento per queste vie ottenuto derivasse o meno una incollocabilità assoluta dell'invalido. Non era neanche pacifico se, come si era affermato in giurisprudenza , il datore di lavoro avrebbe potuto invocare il giudizio dell'Ispettorato circa il ricorrere delle condizioni cui all'art. 2, prima dell'instaurazione del rapporto, al fine di rifiutare l'assunzione. Avallando questa ipotesi interpretativa si sarebbe potuto configurare il tutto come una vera e propria procedura di annullamento per vizi di merito dello stesso atto amministrativo di assegnazione.
Seguì la legge 14 Ottobre 1966 n. 851, la quale fra l'altro adotto quel principio dello scorrimento, già adottato dal legislatore in precedenza: qualora non vi fossero stati invalidi del lavoro da collocare le pp.aa. e le aziende private individuate all'art.1 del D.L.C.p.S. 1222/1947 erano tenute a coprire la percentuale d'obbligo con orfani e vedove di caduti sul lavoro, cui peraltro la legge espressamente estendeva le norme allora vigenti per l'ammissione agli impieghi ed il collocamento obbligatorio degli orfani e vedove di guerra (fermo restando il rispetto delle aliquote cui alla L. n. 1228/1965 concernente provvedimenti in favore delle vedove e degli orfani di guerra e delle vedove e degli orfani dei caduti per causa di servizio).
Per quanto riguardava le assunzioni presso le pp.aa. la legge introduceva un meccanismo di scorrimento, ancora piu' "evoluto", che considerava tutte le categorie protette (art. 15).