Relazione del Vicepresidente dell'Associazione Forense di Diritto del Lavoro e della Previdenza sociale di Napoli
Dal sito dell'Associazione Forense di Diritto del Lavoro e della Previdenza sociale di Napoli
Convegno / Dibattito del 17.6.2013
Convegno / Dibattito del 17.6.2013
Introduzione.
Nel primo anno e mezzo dall’entrata in vigore del nuovo art. 445 bis siamo già al 4° o 5° convegno in cui avvocati, magistrati, professori universitari e medici legali, ci riuniamo nel faticoso tentativo di ricondurre la nuova contorta e quantomai lacunosa disciplina del processo previdenziale a delle soluzioni di ragionevolezza e, sopratutto, equità.
Stando al passo con le problematiche che volta per volta vengono in rilievo man mano che questa prima fase di applicazione del nuovo rito viene a svilupparsi siamo arrivati a confrontarci con le nuove problematiche relative alla fase dell’omologa e ci apprestiamo a confrontarci con quelle ancora future del giudizio di opposizione, ma come tutti sanno molte delle problematiche relative alle fasi precedenti all’omologa non sono state ancora risolte.
L’avv. D’Andrea faceva riferimento alla storia dei 9 mesi per la presentazione della domanda giudiziale, in realtà le problematiche connesse all’ammissibilità dell’istanza di ATP sono varie, ma francamente ritengo che il vero problema non siano le varie interpretazioni di questo o quel magistrato, che comunque è espressione di quell’autonomia ed indipendenza della magistratura che è un valore imprescindibile della nostra democrazia, quanto quello della mancanza di mezzi di impugnazione attraverso i quali far valere l’erroneità di tali interpretazioni o eventuali errori nel merito, del quale il collegio del reclamo ha avuto modo in questo periodo di rendersi conto.
E’ un problema che, ad onor del vero, si è posto anche la magistratura, che certo non può lavorare serena pensando che un eventuale errore non possa trovare alcun rimedio.
Mezzi di impugnazione del rigetto dell’ATP.
Sicuramente i provvedimenti di rigetto dell’ATP sono impugnabili per Cassazione ex art. 111 Cost., ma tale rimedio, oltre ad essere troppo oneroso e lungo per l’urgenza e l’indigenza economica di un soggetto disabile, appare comunque inidoneo a far fronte ad eventuali errori di merito – può accadere magari banalmente che il magistrato sbagli a leggere la data di comunicazione di un verbale e dichiari decaduta la domanda giudiziaria - e non essendo praticabile neanche la via del ricorso per Cassazione il disabile resta impossibilitato a proseguire nell’accertamento del suo requisito sanitario.
In tali casi si è inizialmente provata la strada del reclamo, utilizzando lo strumento previsto dall’art. 669 terdecies per i rigetti dell’ATP ex art. 696– quella con finalità di far fronte al periculum in mora e per la quale è stata prevista espressamente la reclamabilità –, ma la nostra Sezione lo ha ritenuto inammissibile per la profonda differenza ontologica che c’è tra quella ATP e quella prevista dall’art. 669 bis – quella con finalità di conciliazione in funzione deflattiva – alla quale si ispira il 445 bis per la quale tale reclamabilità non è stata prevista.
Una ricostruzione giuridica che ci è sembrata purtroppo corretta, ma che pone uteriori problemi.
Si è fatto, infatti, notare che l’ATP ex 445 bis è completamente differente dalle citate 2 ATP, perchè a differenza delle altre due questa è obbligatoria e preclusiva all’instaurazione del giudizio di merito – che può avvenire solo all’esito non della presentazione dell’istanza di ATP, ma del suo completo espletamento – cosicché un suo rigetto non solo ritarda l’acquisizione della prova, ma la rende totalmente impossibile, comportando un pregiudizio per il ricorrente molto più accentuato di quello che aveva indotto la Corte Costituzionale a riconoscere la reclamabilità dell’ATP ex art. 696 – e abbiamo sollevato al questione di legittiità Costituzionale.
La sezione purtroppo non ha accolto il nostro rilievo di incostituzionalità, indicando però come strada percorribile quella dell’appello, sulla scorta del carattere decisorio e quindi impugnabile del provedimento, una strada che ci permetterebbe di far valere non solo gli errori di merito ma anche di legittimità, ma in merito all’ammissibilità della quale la Corte di Appello di Napoli non si è ancora pronunciata, e ultimamente la stessa magistratura di primo grado napoletana, che pure in maniera assolutamente compatta ha indicato quella dell’appello come una strada percorribile, ha manifestato forti dubbi circa la sua effettiva espeirbilità
Ci auguriamo, quindi, che la Corte di Appello si pronunci in frettasulla questione, che ha poi una serie di conseguenze a cascata:
- se viene dichiarata l’ammissibilità dell’appello contro i provvedimenti di rigetto dell’ATP, infatti, questo vuol dire, ad esempio, che, ai sensi dell’art. 56 della L. 69/2009, prima di poter fare una nuova domanda amministrativa si dovrà aspettare il passaggio in giudicato delle ordinanze di rigetto dell’ATP, ed è, quindi, necessario che il Tribunale si attrezzi per certificare tale passaggio in giudicato anche delle ordinanze di rigetto dell’ATP,
- se l’ammissibilità dell’appello, invece, viene esclusa, allora la nuova domanda potrà essere inoltrata anche il giorno dopo il rigetto dell’ATP, ma per contro tornerebbero in rilievo tutti i problemi di legittimità costituzionale appena evidenziati, perchè, esclusa anche la via dell’appello, il disabile resterebbe veramente alla totale mercè del giudice unico dell’ATP, senza possibilità alcuna di trovare rimedio agli errori, a volte anche banali, che possono essere compiuti dai giudici dell’ATP.
Laddove questo dovesse accadere ci auguriamo che qualche magistrato si armi di coraggio e sensibilità e sollevi la questione innanzi alla Corte Costituzionale.
Erronea applicazione dell’art. 195 c.p.c..
Ulteriori problemi sono poi sorti ultimamente dalla devastante combinazione tra la nuova applicazione dell’art. 195 e la mancanza di un’udienza nella quale interloquire col Giudice.
Innanzitutto sembra incredibile che, nonostante la legge dica chiaramente che i rapporti tra il CTU e le parti debba avvenire mediante fax o PEC, ancora oggi una buona parte dei CTU ancora non abbia la PEC, ed effettui lo scambio con le parti tramite una semplice mail, che a differenza della PEC non rilascia la ricevuta di consegna, cosicché i CTU non si accorgono della mancata consegna alle parti della relazione, magari perchè hanno semplicemente sbagliato l’indirizzo, e gli avvocati non hanno la prova certa di aver inviato le note controdeduttive nei termini.
E’ vero che i medici non sono obbligati ad avere la PEC, ma in realtà se fanno i CTU invece devono averla perchè è imposta dal 195, e basterebbe che i magistrati, all’atto del conferimento di incarico ai CTU, si assicurassero che questi siano forniti di PEC, ed escludano quelli che non lo sono, e siamo sicuri che in breve tempo tutti i CTU si fornirebbero di PEC.
Ma oltre a questo abbiamo purtroppo già riscontrato un’ampia casistica di ulteriori errori nell’applicare il 195: CTU che depositano senza aver inviato la bozza alle parti, o che magari depositano la relazione senza aspettare la scadenza dei termini per l’invio dalle parti delle note, o che non rispondono alle note delle parti, o semplicemente rispondono, ma non depositano unitamente alla loro risposta anche le note inviate dalle parti, non mettendo il giudice nelle condizioni di esercitare il successivo vaglio ex art. 196 previsto dal 445 bis.
In tutti questi casi abbiamo visto che la Sezione si è orientata per inviare comunque il decreto con la fissazione del termine per il dissenso, rimandando al giudizio di merito eventuali rilievi delle parti, anche in punto di mancato rispetto della procedura ex art 195.
A mio avviso questa procedura non è corretta.
L’art. 445 bis, infatti impone che le operazioni peritali si svolgano secondo la procedura prevista dall’art. 195, e afferma che il decreto ex 4° comma sia emesso solo quando sono <<terminate le operazioni di consulenza>>, il che mi sembra chiaro voglia dire che il decreto può essere emesso solo quando le operazioni peritali si siano concluse secondo le modalità previste dall’art. 195. Questo vuol dire che la procedura è volta alla conciliazione, ma il garante del rispetto della procedura è sempre il magistrato, il quale, prima di inviare il decreto con il termine per il dissenso, ha il compito di verificare che tali modalità siano rispettate, verificando quanto meno che la relazione peritale sia corredata delle ricevute - non solo di invio ma anche di consegna - delle PEC alle parti, che siano stati rispettati i termini concessi per l’invio delle note controdeduttive, e che laddove abbia contezza che siano state fatte delle note dalle parti tali note siano allegate alla relazione conclusiva unitamente alle risposte del CTU, e, nel caso riscontri che qualcosa è stato sbagliato, prima di inviare il decreto 4° comma, richiami il CTU e si assicuri che la procedura sia corretta.
Si tratta di un vaglio che il giudice adito già effettua nei procedimenti ordinari, e credo debba essere effettuato anche nei procedimenti di ATP, sopratutto tenendo conto che il corretto scambio delle note fra le parti ed il CTU ha un forte effetto deflattivo, permettendo sia al CTU, mediante i propri chiarimenti, di indurre le parti ad evitare il giudizio di opposizione, sia alle parti di permettere al CTU di rimediare ad eventuali errori – magari a volte banali come l’omessa indicazione della decorrenza - evitando, anche in questo caso, l’esperimento di un giudizio di merito per motivi banali che potrebbero facilmente essere risolti con il corretto scambio previsto dal 195.
Dissenso
Il dissenso è un atto molto semplice, non necessariamente motivato, che deve essere compiuto nel termine di 30 giorni dalla comunicazione del decreto 4° comma; il dissenso tempestivoimpedisce l’omologa mentre quello tardivo non è validamente formulato e non ha alcun effetto impeditivo dell’omologa.
A tal proposito ricordiamo che quando l’INPS nelle ATP è difeso dai funzionari indica i memoria una PEC alla quale può essere inviato il decreto ex 4° comma -direzione.provinciale.napoli@postacert.inps.gov.it – che, quindi, può essere comunicato contestualmente a entrambe le parti, evitando quello sfasamento dei termini fra le due parti dovuto al fatto che spesso si invia la PEC alla parte e il fax all’INPS.
Omologa.
E veniamo all’oggetto precipuo del convegno - L’omologa - è l’atto con il quale il giudice, una volta intervenuta la conciliazione tra le parti che non formulano il dissenso nei termini, omologa il requisito sanitario, un provvedimento in merito al quale, però, vengono al pettine tutti i nodi che pone la lacunosità e al tempo stesso la chiusura di questa nuova disciplina.
Il primo problema è quello dell’omologa parziale.
In materia si sono già gettati fiumi di inchiostro e ancora se ne getteranno, la soluzione adottata dal Tribunale di Napoli è quelladell’inammissibilità dell’omologa parziale, e francamente concordo con tale ricostruzione, in quanto il tenore della norma in presenza di un dissenso tempestivo sembra non lasci troppo spazio alla possibilità di un’omologa, foss’anche solo del requisito sanitario non oggetto di contestazione fra le parti.
Senonchè questa è una vergogna per lo Stato Italiano, perchè di fronte ad un risultato parziale spinge inevitabilmente il disabile a rinunciare a far valere le proprie legittime ragioni in un giudizio di merito per non rischiare una modifica in peius, un atteggiamento vagamente ricattatorio dello Stato, che lucra sullo stato di necessità dei disabili,riportandoci indietro a tempi ben più tristi e lontani, quando la crisi economica portò a ritenere accettabile il sacrificio dei diritti dei più deboli sull’altare della ricchezza comune.
In realtà è tutto il sistema del processo che è pazzesco, perchè mi domando come può uno Stato, una volta che nella fase di ATP sia stato accertato che il disabile sia in condizioni di non autosufficienza, accettare che in caso di dissenso dell’INPS questi possa rimanere senza alcun sostegno economico per tutta la durata del giudizio di merito? Come si può accettare dallo Stato un atteggiamento così cinico, così insensibile?
Una situazione scandalosa, che nulla a che vedere con l’equità o con la ricerca della verità, e che secondo me meriterebbe un intervento deciso della Corte Europea dei diritti dell’uomo.
L’unica cosa in proposito che ci sentiamo di chiedere alla magistratura, è quantomeno di ridurre al minimo la riunione di procedimentiladdove abbiano ad oggetto prestazioni completamente differenti – ad esempio invciv e IO o L. 104 – riducendo al minimo necessario la possibilità di dover scegliere di rinunciare ad una prestazione - magari dovuta - per non incorrere nel rischio di perdere anche quella già riconosciuta.
Un ulteriore problema è quello della non impugnabilità e non modificabilità dell’omologa.
La dottrina – perchè giurisprudenza ancora non ce n’è – unanimemente ritiene ammissibile la correzione di errore materiale del decreto, ma resta totalmente aperta la problematica circa quale sia il rimedio esperibile nel caso in cui il magistrato scientemente si discosti dalle conclusioni del CTU e, in seguito a una personale interpretazione delle risultanze peritali, omologhi un requisito sanitario differente, oppure nel caso in cui il giudice proceda all’omologa nonostante il tempestivo dissenso e conseguente giudizio di merito, oppure si condanni alle spesenonostante la dichiarazione ex art. 152 c.p.c..
In tali casi, probabilmente è ammissibile il ricorso per Cassazione ex art. 111 Cost., un rimedio però troppo lungo e oneroso per un disabile in stato di necessità, ma che pone comunque il problema di non poter inoltrare una nuova domanda prima del passaggio in giudicato del decreto.
Taluna dottrina ritiene ammissibile anche la revoca del decreto di omologa su istanza di parte – ammetteteci almeno la possibilità del magistrato di porre rimedio ad un suo eventuale errore - altra dottrina ancora ritiene possibile addirittura il deposito di un giudizio ordinario di accertamento, nel quale riproporre ogni doglianza.
L’unica cosa certa è che nulla è certo e probabilmente sarà sempre il disabile a sopportare in toto il costo di eventuali errori, e qua si profilano nuovi dubbi di legittimità costituzionale dell’art. 445 bis.
E veniamo a quello che per noi avvocati è forse è il tasto più dolente – il decreto di omologa contiene la regolamentazione delle spese di lite.
Per espressa disposizione del 445 bis, infatti, il giudice nel decreto provvede sulle spese, ovviamente secondo il principio della soccombenza secondo il quale le spese del processo sono normalmente messe a carico della parte che lo ha provocato con il suo comportamento antigiuridico.
La norma è chiara, ed i magistrati liquidano nel decreto di omologa le spese di lite, ma il vero problema, che sta mettendo in crisi l’intera categoria, è il “quantum” viene liquidato.
Dunque, fino all’estate scorsa la nostra attività lavorativa era quantificata dalle mai troppo compiante tariffe forensi, che specificavano voce per voce quanto ci era dovuto per ogni singola attività, senza lasciare spazio alla discrezionalità del magistrato in una materia, la quantificazione del costo del lavoro, nella quale ritengo che il magistrato non abbia gli certamente gli strumenti idonei per una corretta valutazione.
Da agosto scorso - con il D.M. 140/12 – le nostre tariffe sono state sostituite dai parametri ministeriali, ai quali gli organi giurisdizionali devono attenersi nel quantificare il giusto compenso per l’attività degli avvocati., che non quantificano le attività professionali in maniera specifica, come le vecchie tariffe, ma in maniera forfetaria, indicando - a prescindere dalla quantità di attività che in ogni fase viene espletata - un importo medio di liquidazione per grandi fasi procedimentali - di studio, introduttiva, istruttoria, decisoria ed esecutiva.
Il procedimento di ATP è difficilmente inquadrabile secondo le vecchie tariffe – si dice generalmente che è un procedimento sommario ante causam, ma in realtà le sue specifiche lo rendono causam esso stesso e per nulla sommario, visto che l’istruzione è analoga al giudizio ordinario.
Comunque il problema con i nuovi parametri non si pone, in quanto, proprio per la valutazione forfetaria che viene fatta dai nuovi parametri, il D.M.140/12 indica una regola generale e omnicomprensiva alla quale sembra potersi riportare anche il procedimento di ATP, laddove all’art. 7 fa riferimento ai <<procedimenti cautelari, ovvero speciali, ovvero non contenziosi, anche quando in camera di consiglio o davanti al giudice tutelare>> e sancisce il principio per il quale << il compenso viene liquidato per analogia ai parametri previsti per gli altri procedimenti>; anche per quanto riguarda il procedimento di ATP, quindi, sembra corretto doversi valutare il compenso dovuto in base all’effettivo svolgimento di attività in ognuna delle indicate grandi fasi processuali.
Non v’è dubbio, pertanto, che dovranno essere attribuiti i compensi relativi alle fasi di studio ed introduzione del giudizio – che sono, un pò per le preclusioni del rito del lavoro, un pò per l’estremo formalismo che ha ormai assunto tale processo, le fasi in cui maggiormente si concentra l’attività dell’avvocato previdenzialista, che oramai segue tutta la fase dell’istruzione amministrativa, anzi comincia addirittura prima della domanda amministrativa, con la ricerca in archivio di eventuali vecchie sentenze magari di altri avvocati di cui certificare il passaggio in giudicato, per poi passare al lavoro al fianco dei medici perchè prescrivano le visite specialistiche necessarie per la corretta istruzione della pratica o mettano la benedetta X sui certificati medici – e ovviamente dovrà essere valutata la fase istruttoria, che è il fulcro dell’intera ATP - oggi particolarmente gravosa, perchè la mancanza di un udienza ci obbliga a fare tutto per iscritto, dalla produzione di documenti alla richiesta di chiarimenti, entro termini brevissimi e con formalità sempre più complesse.
Molti dubbi sono stati formulati circa la compensabilità della fase decisoria, che, infatti, molto spesso viene omessa dal calcolo dei compensi. Questo però è un errore, perchè è vero che non vi è più un’udienza di discussione e precisazione delle conclusioni, ma, per contro, i nuovi parametri hanno ricompreso nella fase decisoria – quindi di competenza del giudice di merito – oltre al deposito delle note spese, che molti avvocati effettuano anche nell’ATP, anche tutta una serie di attività che le vecchie tariffe riservavano alla fase successiva alla pubblicazione del provvedimento, tra cui, ad esempio, le attività relative alla richiesta del provvedimento conclusivo del giudizio - che con l’ATP è diventata particolarmente complicata - all’esame di tale provvedimento, al ritiro del fascicolo in archivio, non sono tante attività ma sono comunque attività che gli avvocati svolgono anche nell’ATP, e che devono essere necessariamente ricomprese nel calcolo del compenso.
Per queste 4 fasi, per il primo scaglione fino a € 25.000, i nuovi parametri indicano un valore medio di liquidazione complessivo di € 2.100.
A quest’importo va ad aggiungersi un ulteriore 25%, perchè se è vero che l’ATP è finalizzata alla conciliazione fra le parti per evitare l’instaurazione del giudizio di merito, vuol dire che laddove si aderisce alle risultanze del CTU e si rinuncia al giudizio di merito si perviene ad una conciliazione con effetto deflattivo, e questa conciliazione è premiata dal Legislatore con la previsione all’art. 4 comma 5 di un aumento del compenso fino al 25 % - quindi altri € 525 - per un totale di € 2.625.
Infine le spese generali. Il D.M. 140/12 le aveva abrogate, ma la Legge 247/2012 – Nuova disciplina dell’ordinamento forense – entrata in vigore dal 2.2.2013, le ha reintrodotte. L’art. 13 comma 10, infatti, dispone che in sede di liquidazione giudiziale <<oltre al compenso per la prestazione professionale, all’avvocato è dovuta una somma per il rimborso delle spese forfetarie la cui misura massima è determinata dal decreto di cui al comma 6 >> - decreto attualmente al vaglio del Ministero della Giustizia, si dice di prossima approvazione, che fissa tale rimborso delle spese generali in un range tra il 10 ed il 20%, per cui tenendoci al minimo le spese generali possono essere quantificate nel 10% - quindi altri € 260.
Il tutto per un valore medio di liquidazione totale di una causa media per lo scaglione fino a € 25.000 pari a € 2.885.
Su tale importo il Legislatore ha poi previsto che il magistrato può incidere, applicando degli aumenti fino al 60% o delle diminuzioni fino al 50%, e ciò sulla base della sua valutazione di una serie di parametri: i risultati del giudizio e il pregio dell’opera prestata, il valore della causa e i vantaggi per il cliente, l’importanza e l’urgenza delle questioni trattate, la complessità della controversia.
Dunque:
- per quanto riguarda risultati del giudizio e il pregio dell’opera: se la causa è vinta in toto vuol dire che il risultato è massimo e il pregio dell’opera è almeno sufficiente;
- per quanto riguarda il valore della causa: possiamo ritenere che una media causa di invalidità civile con accoglimento totale dalla domanda riconosca mediamente 2/3 anni di arretrati della prestazione, siamo intorno a quei € 10/15.000 che si pongono nella media dello scaglione fino a € 25.000 - e ciò a non considerare che tale causa darà diritto alla corresponsione della prestazione a vita(salvo revoche dell’INPS) il che farebbe schizzare il valore della causa ben oltre lo scaglione fino a € 25.000;
- per quanto riguarda l’importanza e l’urgenza delle questioni giuridiche trattate: bhe, a volte leggiamo alcuni giudici dare compensi irrisori <<data la scarsa rilevanza giuridica della questione o la serialità della controversia>> in merito permettetemi due parole:
in primo luogo riteniamo che non ci si trovi di fronte a cause seriali, in quanto le cause seriali sono quelle tutte uguali e in cui cambia solo il nome, e risolto un problema è risolto per tutti, nella previdenza invece ogni causa e ogni disabile è un mondo a se, con proprie specifiche, propria documentazione, proprie patologie da accertare e l’unica cosa che hanno in comune le varie cause è la prestazione richiesta, e non è colpa nostra se la sezione è specializzata e le cause ai magistrati appaiono tutte uguali pur essendo tutte differenti;
ma sopratutto riteniamo che non possa parlarsi di scarsa rilevanzagiuridica, perchè laddove si tratti di un diritto di un disabile ad avere delle prestazioni dalle quali dipende la loro vita, l’importanza e l’urgenza della questione sia non è scarsa, bensì massima, sicuramente maggiore del diritto di un lavoratore che magari sarà stato licenziato, ma almeno può lavarsi e vestirsi da solo. Non dimentichiamoci mai che i diritti dei disabili sono tutelati al massimo rango costituzionale, e forse sono alcuni magistrati che dovrebbero chiedersi se effettivamente diano alla previdenza la giusta importanza che merita!;
- ma certamente il parametro più importante è quello della complessità della controversia: in molti considerano la materia previdenziale come facile, ma allora mi domando che ci facciamo tutti qui riuniti? In 4 convegni non siamo riusciti a mettere dei punti certi su quasi niente, l’unica cosa che abbiamo capito è che il nuovo rito è talmente complesso e pieno di insidie che qualsiasi errore pur minimo diventa irreparabile, e ci dite che è un processo facile? Ma poi qual è la causa media in base alla quale si stabilisce se un processo è facile o difficile? Com’è possibile paragonare controversie in materie completamente differenti? Com’è possibile paragonare una causa previdenziale, nella quale il grosso del lavoro viene svolto prima dell’instaurazione del giudizio, quindi, non davanti agli occhi di un magistrato, con una causa di risarcimento danni, dove buona parte dell’attività viene effettuata in udienza davanti agli occhi del magistrato? Secondo me la valutazione della complessità deve essere effettuata in base alla materia, e nella materia previdenziale la causa media è quella di invalidità civile, poi ci saranno cause più complesse – che ne so, totalizzazione di contributi esteri – in cui si aumenterà fino al 60%, e cause più semplici – interessi legali – in cui si diminuirà fino al 50%, ma il valore medio di liquidazione andrebbe certamente attribuito alla causa media, cioè quella di invalidità civile.
Francamente, quindi, io non vedo come e perchè non si debba corrispondere il valore medio di liquidazione, magari si potrebbe ridurre solo per la fase decisoria, nella quale effettivamente l’assenza dell’udienza di decisione riduce le attività a poco, ma per il resto si dovrebbe attribuire il valore medio. Ma capiamo che siamo in clima dispending review, ed è forse questo clima che induce - pur senza un reale motivo – a una riduzione totale di tutte le voci fino al massimo del 50% previsto dalla legge – anche in questo caso l’importo minimo delle spese di un’ATP è ancora pari a € 1.450 al di sotto del quale, però, non si può e non si deve andare!
Del resto si tratta di un importo analogo al compenso medio di una causa di previdenza ordinaria, rispetto alla quale, in effetti, non ci sembra sia cambiato assolutamente nulla nel nostro lavoro, essendo tutto uguale, sia per noi che per i magistrati, che comunque controllano sempre tutto, dalle condizioni di ammissibilità ai requisiti socioeconomici, e l’unica cosa che differisce è il provvedimento finale, che però non influisce in alcuna maniera sulla quantità o qualità del nostro lavoro.
Ora, è vero che il DM 140/12 ha messo una norma di apertura, affermando che i valori dei parametri non sono vincolanti per il magistrato, ma questo non vuol dire che il Legislatore abbia rimesso la quantificazione dei compensi all’equità o alla discrezionalità del magistrato. Il legislatore ha indicato dei precisi parametri di quantificazione ai quali il magistrato deve attenersi, dandogli poi lapossibilità di svincolarsi in casi particolari ed eccezionali, ma se poi, come purtroppo sta avvenendo a Napoli con le ATP – onestamente non da tutti i magistrati, ma da buona parte di essi – gli importi dei compensi delle ATP vanno ampiamente al di sotto di tale soglia minima – parliamo di una media di 600/800 euro - questo vuol dire che il magistrato non stà usando quella norma di apertura, ma ne stà abusando, non usandola per il caso particolare, ma per l’intera materia previdenziale, come se tutta la materia previdenziale, che poi è il 40% del contenzioso civile, dovesse essere considerata fuori parametro, cosa che, francamente, non corrisponde con la volontà del Legislatore.
Ma poi come fa il magistrato a valutare il giusto compenso di un avvocato? Quali strumenti ha per sapere quant’è il giusto? Nel fissare gli importi dei compensi lo Stato ha tenuto conto del costo medio di una causa – che nel caso della previdenza fra stipendi, assicurazioni, cassa di previdenza, licenze, programmi, ecc si attesta mediamente sui 900/1000 euro a causa – e del guadagno dell’avvocato, che deve pur vivere. Guadagno che nel caso dell’importo minimo non sarebbe granchè, ma almeno quel poco ci deve essere garantito.
Questi parametri sono il nostro contratto collettivo nazionale, e come nessun magistrato, una volta riconosciuto il diritto di un lavoratore, si sognerebbe di dargli meno di quanto stabilito dal contratto collettivo, non comprendiamo perchè gli stessi magistrati diano a un avvocato meno del minimo garantito dai parametri ministeriali.
Quando un magistrato scende così ampiamente sotto i parametri minimi, infatti, non solo elimina il guadagno, ma va sotto il livello dei costi della causa, e questo vuol dire che la differenza o ce la mette il disabile - il quale, oltre al danno di aver dovuto aspettare anni per un errore dell’INPS, sopporta anche la beffa di dover pagare di tasca sua quell’errore (tutti noi avvocati sentiamo sempre i nostri clienti chiederci perchè se ha vinto la causa deve pagare lui e non l’INPS – ecco, appunto, vorremmo saperlo anche noi) – o, peggio ancora, se si tratta di avvocati vincolati alla convenzione con un patronato, che non possono chiedere l’integrazione ai clienti, rimarrà a carico dell’avvocato stesso, il quale pagherà di tasca sua gli errori prima dell’INPS, poi del magistrato.
E’ una situazione veramente inaccettabile, che mette in crisi l’intera categoria, e francamente non capiamo perchè il cambio del rito ha dovuto voler dire per noi più lavoro ma onorari dimezzati, e sarebbe il caso che qualcuno ci spieghi perchè improvvisamente il futuro nostro e delle nostre famiglie è messo in pericolo.
La fase successiva all’omologa.
Su quello che succede dopo l’omologa poi c’è il buio.
La legge dice che il decreto va notificato all’ente, non ci dice però dove deve essere notificato.
La legge 203 del 2005 sembrerebbe far propendere per la notifica alla sede provinciale, almeno per le controversie relative ad invalidità e handicap, ma alcuni sostengono che la notifica <<all’ente>> vuol dire che vada fatta alla sede legale di Roma, che comunque è la sede a cui notificare il decreto in materia di invalidità contributiva, così come non si può escludere la possibilità della notifica al procuratore costituito dell’ente, presso il quale l’ente domicilia per tutti gli atti del procedimento.
Per noi è uguale, ci dica la magistratura napoletana dove ritiene vada fatta e li la faremo, basta però che sia in un luogo solo, e che non si reiteri anche nell’ATP la follia delle notifiche plurime presso tutte le sedi possibili, che fa solo buttare tempo e denaro a noi e allo Stato.
Che succede se l’INPS non paga nei 120 giorni?
Per quanto riguarda la prestazione del disabile unanimemente è ritenuto che il decreto di omologa non sia titolo esecutivo, per cui, sarà necessario instaurare un nuovo giudizio – monitorio o ordinario – per ottenere la condanna al pagamento della prestazione per il cliente.
Resta solo da capire se con un unico giudizio, basato su un accertamento del requisito sanitario vecchio ormai almeno di 5 o 6 mesi, o se invece con due differenti azioni, una per la condanna fino al decreto di omologa sulla base dell’accertamento in esso contenuto, e un’altro per l’accertamento del requisito sanitario per il periodo successivo, eventualmente con una nuova ATP.
Ma vi è di più – e qui dirò forse una cosa controversa - secondo me lo stesso discorso vale anche per quanto riguarda gli onorari degli avvocati.
Nonostante che il Tribunale di Napoli apponga al decreto di omologa con la condanna alle spese la formula esecutiva, infatti, a me non sembra che ciò basti a qualificarlo come titolo esecutivo.
Al riguardo il codice è chiarissimo nell’affermare che non è la formula esecutiva a qualificare un atto come titolo esecutivo, bensì solo ed esclusivamente la Legge. L’art. 474 c.p.c. , infatti, afferma che la qualità di titolo esecutivo è assunta dalle sentenze e da <<i provvedimenti e gli altri atti ai quali la legge attribuisce espressamenteefficacia esecutiva>> - quel titolo esecutivo, poi, può essere messo in esecuzione solo se fornito della formula esecutiva di cui al 475 – una sentenza di condanna, ad esempio. è titolo esecutivo, ma può essere messa in esecuzione solo la copia esecutiva – quindi è la legge e non la formula esecutiva che qualifica un atto come titolo esecutivo.
Fra i provvedimenti che sono titoli esecutivi, in effetti, ve ne sono un gran numero che sono molto simili al decreto di omologa, pensiamo al DI o al decreto di liquidazione dei CTU previsto dall’art. 53 c.p.c., maper tutti questi atti la legge attribuisce espressamente la qualifica di titolo esecutivo, mentre l’art. 445 bis non l’ha attribuita al decreto di omologa, e vista la tassatività dell’art. 474, non sembra che lo si possa qualificare titolo esecutivo per analogia.
Questo, quindi, vuol dire che l’apposizione della formula esecutiva è probabilmente erronea e ingenera solo confusione, perchè induce gli avvocati a instaurare – non prima che siano trascorsi 8 mesi (120 + 120) - un procedimento esecutivo che – a questo punto fra almeno un anno e mezzo - sarà probabilmente dichiarato inammissibile, perchè fondato su un atto che non è titolo esecutivo.
E quindi anche per i nostri onorari mi sembra che la cosa più corretta sia di notificare anche la copia attributaria del decreto di omologa insieme a quella del procedente – cosa che si può fare immediatamente, perchè non essendo titolo esecutivo non dobbiamo prima mandare l’IBAN e poi attendere 120 giorni per la sua notifica – e poi, nel caso di mancato pagamento nei 120 giorni, procedere come per il cliente, con un’azione giudiziaria – in via monitoria o ordinaria – per ottenerne il pagamento - con buona pace di tutti i propositi di deflazione del contenzioso, che forse alla fine sono solo propositi di allungamento dei tempi di pagamento.
Il giudizio di opposizione
Infine il giudizio di opposizione.
E’ un giudizio che non conosciamo ancora e l’unica cosa che dice la legge è che deve essere instaurato entro 30 giorni dal dissenso.
In merito mi permetto di dire che secondo me è stato fatto un errore dal Tribunale, perchè, forse per motivi di gestione delle pratiche, una volta formulato il dissenso il procedimento di ATP viene estinto ed archiviato.
Questo non mi sembra corretto.
L’art. 445 bis dispone che l’omologa sia impedita non solo dal dissenso, ma da un atto a formazione progressiva composto dal dissenso nei termini, dal deposito del ricorso di merito nei termini, dalla sua coltivazione – quantomeno la sua notifica.
Pertanto, nel caso in cui il ricorso di merito non sia depositato nei termini o non sia almeno notificato, dovrà ritenersi che l’atto a formazione progressiva con efficacia impeditiva dell’omologa non si sia perfezionato e il giudice, magari su istanza di parte, dovrebbe procedere ad omologare il requisito sanitario.
A tal proposito, quindi, diventa rilevante che il sistema informatico ci permetta di controllare se l’INPS ha fatto il giudizio di merito, se l’ha fatto nei termini, e quand’è l’udienza, in modo da poter controllare che il ricorso sia notificato, senza dover rimanere inerti ad aspettare una notifica che magari non avverrà mai, e in questo momento, invece, il controllo non può essere fatto dalla parte privata fino a che non è costituita, e, quindi, non prima della notifica del ricorso, e non è possibile controllare neanche se l’INPS il ricorso di merito l’ha fatto o meno, non potendo difendere in maniera adeguata la posizione del nostro cliente.
Ad esempio si potrebbe dare al giudizio di merito un numero di ruolo collegato all’ATP, come avviene per i CEM, in modo da conservare le costituzioni e permettere il monitoraggio dei giudizi.
Ritenere al contrario – come sembrerebbe dall’estinzione e dall’archiviazione dell’ATP - che basti il dissenso a far estinguere l’ATP e a impedire l’omologa significherebbe mettere nelle mani di una parte – fondamentalmente l’INPS – un facile strumento per vanificare senza fatica l’intero procedimento di ATP e ciò che in esso viene accertato, che sicuramente è contrario alla norma di legge e alla volontà del Legislatore.
Ritenere poi che in questo caso la parte interessata possa ovviare depositando un giudizio di merito, oltre ad essere contrario all’intento deflattivo della norma, perchè si obbligherebbe a fare un giudizio per ottenere un risultato di fatto già ottenuto, non sembra corretto anche perchè la norma prevede che il giudizio di merito debba essere introdotto entro il termine di 30 dal dissenso – e la parte che non ha formulato il dissenso non potrebbe introdurlo – ma deve a pena di inammissibilità contenere le contestazioni della CTU – che nel caso non ci potrebbero essere.
Inoltre poi verrebbero in rilievo tutta una serie di ulteriori problematiche, connesse al fatto che in questo giudizio di merito ci si avvarrebbe di uneffetto impeditivo della decadenza, di decisioni circa l’ammissibilità della domanda e di risultanze istruttorie di un procedimento che però risulta estinto, con tutte le ulteriori conseguenti problematiche interpretative, esaltate dall’inappellabilità delle sentenze.
E non ci si venga a dire che la decadenza è impedita dall’ATP anche se estinta, visto che già è capitato addirittura che il Tribunale di Napoli abbia dichiarato decadute delle ATP formulate dopo un giudizio ordinario tempestivo e nel termine di 15 giorni dalla sua dichiarazione di improcedibilità, solo sulla scorta del fatto che per il tribunale l’ATP non poteva avvalersi dell’effetto impeditivo della decadenza del ricorso ordinario.
In realtà ATP e giudizio di merito sono strettamente vincolati l’uno all’altro, analogamente a quanto avviene fra 1° grado ed appello, il thema decidendum viene indicato dal ricorso per ATP, la fase istruttoria, almeno la prima, viene svolta nell’ATP, il fascicolo è lo stesso, e il giudizio di merito è una conseguenza dell’ATP, deve essere instaurato in precisi termini che sono propri del procedimenti di ATP e deve contenere a pena di inammissibilità le contestazioni dell’ATP, per cui il suo oggetto precipuo sono le modalità di svolgimento dell’istruttoria compiuta nell’ATP.
Ritenere l’ATP estinta, spezzando la pendenza della lite e il continuum logico giuridico fra ATP e merito è come costruire un giudizio di appello senza il giudizio di primo grado, un enorme errore, carico di inimmaginabili conseguenze.
Pensiamo ad esempio alle notifiche, come si può pensare che, a giudizio già instaurato e parti costituite, le notifiche non vadano fatte ai procuratori costituiti ma alle parti direttamente? e ve l’immaginate l’INPS a cercare di notificare il ricorso alla parte, che magari rispetto all’ATP ha cambiato residenza o è deceduta? e al disabile, che si vede arrivare a casa l’ufficiale giudiziario - se non è invalido lo diventa!
E se non si tiene in considerazione l’ATP perchè è estinta, chi lo stabilisce l’oggetto del giudizio? può mai essere stabilito dall’INPS, che magari rispetto al giudizio di ATP lo restringe? e un giudizio di merito fatto dall’INPS solo relativamente all’accertamento del requisito sanitario sarà inammissibile, perchè non è ammesso un giudizio di accertamento solo del requisito sanitario? o la parte sarà obbligata a costituirsi in riconvenzionale ampliando l’oggetto del giudizio all’intera prestazione?
E di chi sarebbe l’onere della prova: senza tener conto dell’ATP l’INPS si troverebbe nell’assurda situazione di dover fare causa ad un disabile per evitare il riconoscimento di una prestazione ancora mai riconosciuta, e in un giudizio nudo e puro l’ l’onere della prova dovrebbe gravare sull’INPS, che dovrebbe fornire la prova della mancanza dei requisiti sanitari e socioeconomici per tale riconoscimento, e, teoricamente, la parte potrebbe anche rimanere contumace. In questo caso che succederebbe? Il Tribunale rigetterà mai la domanda dell’INPS perchè priva della prova che la CTU era sbagliata, riconoscendo in sentenza il requisito sanitario anche in favore della parte contumace? O ribalterà l’onere della prova a carico della parte resistente, in deroga a qualsiasi norma codicistica in materia, sanzionando la parte privata magari per manifesto disinteresse? E siamo sicuri che la parte privata debba per forza partecipare al processo instaurato dall’INPS?
E poi come la mettiamo con gli onorari? se l’ATP è estinta chi le paga le spese di lite dell’ATP? che succede all’esito del giudizio di merito, che non vengono corrisposti i compensi anche per l’ATP? e se il giudice del merito dichiara inammissibile il ricorso dell’INPS che succede, non liquida neanche le spese della fase istruttoria perchè relative ad un’ATP estinta?
Problematiche enormi, irrisolvibili a bocce ferme, a mio avviso troppe e troppo complesse per essere affrontate per la prima volta in un giudizio che si conclude con un provvedimento inappellabile, e delle quali, credo, sarà necessario trattare in un prossimo apposito convegno.
Io mi sento solo di fare un appello ai magistrati, non vi invidio, siete chiamati ad un lavoro di enorme responsabilità, l’inappellabilità delle sentenze e la lacunosità della norma fà si che ognuno di voi diventa legislatore di se stesso, e ogni errore diventa irreparabile, in questo lavoro non fatevi influenzare dalle campagne di stampa, non cedete al giustizialismo o a un eccessivo formalismo, non trasformatevi in giudici della corte dei conti, tesi solo al risparmio, cercate la sostanza del vostro lavoro, ricordatevi che dietro ogni avvocato, ogni pratica, c’è probabilmente un disabile che combatte da anni per la propria sopravvivenza, cercate di decidere con imparzialità, con equilibrio, con equità...in una parola, siate giusti, perchè noi non abbiamo più nessuno strumento per combattere l’ingiustizia.