L'art.1, 8° co., D.Lgs. 503/1992, nell'indicare i soggetti per i quali non si applica l'elevazione dei limiti di età pensionabile, pone l'unico requisito dell'invalidità, nella nozione di invalidità civile, che non deve essere inferiore all'80% (Cass. n. 13495/2003)

Estratto dal Decreto Legislativo 30 dicembre 1992, n. 503, "Norme per il riordinamento del sistema previdenziale dei lavoratori privati e pubblici, a norma dell'articolo 3 della legge 23 ottobre 1992, n. 421"

art. 1. 
Età per il pensionamento di vecchiaia.

1. Il diritto alla pensione di vecchiaia a carico dell'assicurazione generale obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia ed i superstiti dei lavoratori dipendenti è subordinato al compimento dell'età indicata, per ciascun periodo, nella tabella A allegata.
2. Il limite di età previsto per l'applicazione delle disposizioni contenute nell'art. 6, L. 29 dicembre 1990, n. 407, è elevato fino al compimento del 65° anno; gli assicurati che alla data di entrata in vigore del presente decreto prestano ancora attività lavorativa, pur avendo maturato i requisiti per aver diritto alla pensione di vecchiaia, sono esonerati dall'obbligo della comunicazione di cui al richiamato articolo 6, comma 2; sono altresì esonerati dall'anzidetto obbligo gli assicurati che maturino i requisiti previsti entro sei mesi successivi alla data di entrata in vigore del presente decreto, fermo restando l'obbligo per gli assicurati stessi di effettuare la comunicazione sopra considerata non oltre la data in cui i predetti requisiti sono maturati.
3. La percentuale annua di commisurazione della pensione per ogni anno di anzianità contributiva acquisita per effetto di opzione esercitata ai sensi dell'articolo 4 della legge 9 dicembre 1977, n. 903, e dell'articolo 6 del decreto-legge 22 dicembre 1981, n. 791, convertito con modificazioni dalla legge 26 febbraio 1982, n. 54, ai fini della permanenza in servizio oltre le età di cui al comma 1, è incrementata di un punto percentuale fino al compimento del 60° anno di età per le donne e 65° per gli uomini e di mezzo punto percentuale negli altri casi, anche in deroga all'articolo 11, comma 2, della legge 30 aprile 1969, n. 153. Gli incentivi indicati sono attribuiti, comunque, fino al raggiungimento dell'anzianità contributiva massima utile. Per gli anni successivi viene riconosciuta la maggiorazione della pensione di cui al comma 6 dell'articolo 6 della legge 29 dicembre 1990, n. 407.
4. Le percentuali annue di rendimento attribuite ai sensi del comma 3 restano acquisite indipendentemente dalla successiva applicazione dell'elevazione del requisito di età prevista dal comma 1.
5. Il trattamento pensionistico derivante dall'applicazione dei commi 2 e 3 non può comunque superare l'importo della retribuzione pensionabile prevista dai singoli ordinamenti.
6. Sono confermati i requisiti per la pensione di vecchiaia in vigore alla data del 31 dicembre 1992 per i lavoratori non vedenti.
7. Il conseguimento del diritto alla pensione di vecchiaia è subordinato alla cessazione del rapporto di lavoro.
8. L'elevazione dei limiti di età di cui al comma 1 non si applica agli invalidi in misura non inferiore all'80 per cento.

Marco Aquilani, 18.10.2015

Il testo dell'atto

Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Sentenza 13 settembre 2003, n. 13495

Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Sentenza 13 settembre 2003, n. 13495

Pensioni - pensione di vecchiaia - anticipazione - requisiti ridotti ex art. 1, comma 8, D. Lgs. n.
503 del 1992 - requisito sanitario - nozione di invalidità nei termini dell'invalidità civile - estraneità dei criteri previsti dalla legge n. 222/1984 (Sintesi non ufficiale)

Secondo la disciplina previgente all'art.1, 1° co., D.Lgs. 503/1992, si consegue il diritto a pensione di vecchiaia all'età di sessant'anni per l'uomo e di cinquantacinque anni per la donna.
La formulazione con cui l'art.1, 8° co., D.Lgs. 503/1992 indica i soggetti per i quali non si applica l'elevazione dei limiti di età pensionabile, inducono ad affermare che l'unico requisito posto dalla legge riguarda la misura dell'invalidità, nella nozione di invalidità civile, che non deve essere inferiore all'80%. (Massima non ufficiale)

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. Salvatore  SENESE - Presidente -
Dott. Michele DE LUCA - Consigliere -
Dott. Donato FIGURELLI - Consigliere -
Dott. Francesco Antonio MAIORANO - Rel. Consigliere -
Dott. Giuseppe CELLERINO - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:  
 
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
M**** C*****, elettivamente domiciliata in  ROMA  VIA  LIBIA  58, presso lo studio dell'avvocato PIETRO FERRI,  che  la  rappresenta  e difende unitamente all'avvocato SALVATORE MORRONE, giusta  delega  in atti;  
- ricorrente -
contro
I.N.P.S. - ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA  SOCIALE,  in  persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente  domiciliato  in ROMA VIA DELLA FREZZA 17, presso l'Avvocatura Centrale dell'Istituto, rappresentato e difeso dagli avvocati CARLO DE  ANGELIS,  MICHELE  DI LULLO, giusta delega in atti;
- controricorrente -
 
avverso la sentenza n. 4480-99 del Tribunale di TORINO, depositata il 23-08-99 R.G.N. 66-99;
udita la relazione della causa  svolta  nella  pubblica  udienza  del 11-10-02 dal Consigliere Dott. Francesco Antonio MAIORANO;
udito l'Avvocato FERRI;
udito il P.M. in persona del  Sostituto  Procuratore  Generale  Dott. Guido RAIMONDI che ha concluso per l'accoglimento del ricorso. 
 
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO 
Con ricorso al Pretore di Torino del 20-11-97 M**** C***** chiedeva l'accertamento del suo diritto alla pensione di vecchiaia a decorrere dal luglio 1995, in quanto sordomuta, invalida all'80% sulla base della tabella allegata al D. L.vo n. 509 del 23-11-88. 
L'INPS contrastava la domanda, ma il Pretore l'accoglieva. Il Tribunale di Torino, investito in sede di gravame ad istanza dell'INPS, con sentenza del 22-6 - 23-8-99, riformava la decisione e rigettava l'originaria domanda, precisando che irrilevante era la consulenza espletata in primo grado per accertare il grado d'invalidità della M****: era infatti contestato non il grado d'invalidità da riconoscere, bensì la nozione d'invalidità richiamata dell'art. 1, comma 8 , del D. L.vo n. 503-92; la percentuale d'invalidità fissa, all'80%, prevista dall'art. 2 del D. L.vo n. 509-88, poteva essere ridotta o aumentata, ai sensi del successivo art. 3 dalle competenti Commissioni fino a 5 punti percentuali, con riferimento alle occupazioni confacenti alle attitudini del soggetto, considerando cioè la capacità lavorativa semispecifica o specifica; la percentuale fissa d'invalidità quindi si riferiva alla capacità lavorativa generica rilevante ai fini dell'invalidità civile, mentre quella rilevante in ambito INPS ai fini del conseguimento del diritto all'assegno o alla pensione era la riduzione della capacità lavorativa in occupazioni confacenti alle proprie attitudini. 
Si trattava quindi di stabilire a quale delle due nozioni d'invalidità facesse riferimento l'art. 1, comma 8 , del D. Lvo n. 503-92 nella parte in cui stabiliva che "l'elevazione dei limiti di età di cui al comma 1 non si applica agli invalidi in misura superiore all'80%"; secondo il Pretore il beneficio della non elevazione dei limiti di età era genericamente disposto in favore di tutti i soggetti invalidi, anche se avessero capacità di guadagno (come la ricorrente), in quanto l'unico requisito posto dalla legge riguardava la misura dell'invalidità; la tesi però non era condivisibile in quanto doveva essere risolta la questione sulla nozione di invalidità accolta dalla norma: la genericità della espressione "invalidi in misura inferiore all'80%" non ora sufficiente per far ritenere che la legge avesse accolto la nozione di invalidità civile; anzi proprio la mancanza di qualsiasi altra specificazione deponeva a favore della interpretazione contraria: trattandosi di pensione di vecchiaia a carico dell'INPS, doveva ritenersi che, in assenza di altra precisazione, fosse stata accolta la nozione di invalidità valevole in ambito previdenziale. L'appello quindi doveva essere accolto e la sentenza riformata. 
Avverso questa pronuncia propone ricorso per cassazione la M**** fondato su un solo motivo. L'INPS resiste con controricorso.
 
MOTIVI DELLA DECISIONE
Lamentando violazione e falsa applicazione dell'art. 1 comma 8 D.  L.vo n. 503-92 (art. 360 n. 3 CPC) deduce la ricorrente che non può essere condivisa l'interpretazione accolta dal Tribunale che opera "una indebita sovrapposizione con altre provvidenze economiche, quali l'assegno ordinario di invalidità e la pensione di inabilità, che tutelano... l'incapacità lavorativa totale o parziale del soggetto". 
La ricorrente non ha chiesto nessuna di queste provvidenze, ma solo la pensione di vecchiaia, anticipata rispetto alle nuove regole fissate dalla L. n. 503-92
L'intenzione del legislatore è quella di escludere dal generale innalzamento dei limiti dell'età pensionistica coloro che sono comunque invalidi in misura superiore all'80% e quindi più deboli e meritevoli di maggior tutela, perché se anche inseriti nel mondo del lavoro subiscono maggiore usura ed operano con maggiore difficoltà rispetto agli altri. L'interpretazione fornita si basa esclusivamente sul contesto in cui è inserita la norma e finisce per obliterare la vera "ratio" della legge; peraltro non c'è motivo per riservare ai sordomuti un trattamento deteriore rispetto ad altre categorie di minorati, come invalidi e ciechi civili. La sentenza quindi deve essere cassata. 
Il ricorso è fondato. 
Questa Corte ha già avuto modo di affermare, con sentenza n. 8459 del 1999, che l'art. 1, comma 1, del d. lgs. 30 dicembre 1992 n. 503, recante "Norme per il riordinamento del sistema previdenziale dei lavoratori privati e pubblici, a norma dell'art. 3 della legge 23 ottobre 1992 n. 421", subordina il diritto alla pensione di vecchiaia a carico del regime generale dei lavoratori dipendenti "...al compimento della età indicata, per ciascun periodo, nella tabella A allegata", 65 anni per l'uomo e a 60 anni per la donna, non già con efficacia immediata, bensì attraverso una fase transitoria di incremento progressivo, che inizia a decorrere dal 1 gennaio 1994 e procede per scaglioni biennali (o un anno e mezzo ogni due anni in base alla modifica apportata dall'art. 11 legge 23 dicembre 1994 n. 724) per arrivare allo scaglione finale - appunto di 65 e 60 anni - con effetto dal 1 gennaio dell'anno 2000. 
È, tuttavia, lo stesso art. 1 ad affermare, nel comma 8, che "l'elevazione dei limiti di età di cui al comma 1 non si applica agli invalidi in misura non inferiore all'80 per cento". La percentualizzazione puntuale della invalidità in una misura finora estranea al regime pensionistico generale è già da sola significante dell'intento legislativo di riferirsi a una categoria di soggetti che non coincide con quella indicata nell'art. 1 della legge n. 222 del 1984, il quale accoglie una nozione di invalidità che fa consistere genericamente nella riduzione della capacità di lavoro a meno di un terzo. 
Ma è lo stesso dato testuale della disposizione ad autorizzarne una interpretazione che include nel regime derogatorio della nuova disciplina della età pensionabile anche i soggetti che la legge n. 222 del 1984 qualifica "inabili", i soggetti cioè per i quali un infermità o un difetto fisico o mentale abbiano determinato non già una riduzione ma la totale perdita della capacità di lavoro. La circostanza, infatti, che la legge espressamente dia rilievo a una misura di invalidità "non inferiore all'80 per cento comporta, "a fortiori", che siano incluso nella sua previsione (anche) le invalidità di misura "superiore" a quella soglia percentuale, fino alle situazioni di invalidità totale (100 per cento), le quali coincidono con la inabilità. 
La deroga al nuovo regime normativo dell'età pensionabile e la conservazione della disciplina previgente deve, dunque, intendersi stabilita per tutti gli assicurati per i quali sia accertata una riduzione della capacità di lavoro di grado pari o superiore all'80 per cento, compresi i soggetti - dall'art. 2 della legge n. 222 del 1984 definiti inabili - che tale capacità abbiano perduto interamente. 
Questa ricostruzione della "voluntas legis" è confortata dal testo dell'art. 3 della legge delega n. 421 del 1992, il quale espressamente indicava gli "inabili" come soggetti da escludere dall'innalzamento dell'età pensionabile, e dal contenuto del parere espresso dalla Commissione XI (lavoro pubblico e privato) sullo schema di decreto legislativo, significativamente sottolineandosi, in detto parere (seduta di giovedì 3 dicembre 1992), la necessità di sostituire la parola "inabili" con la parola "invalidi" per non precludere la deroga ai titolari di assegno di invalidità INPS". 
Questo principio di diritto, condiviso dal Collegio, è stato dalla Corte elaborato per affermare che, conseguendosi il diritto a pensione di vecchiaia all'età di sessant'anni per l'uomo e di cinquantacinque anni per la donna secondo la previgente disciplina, è a questa età che occorre fare riferimento per il calcolo della maggiorazione che costituisce uno degli addendi della pensione di inabilità. 
Le argomentazioni che precedono e la considerazione della ampiezza della formula adoperata per indicare i soggetti per i quali non si applica l'elevazione dei limiti di età pensionabile, inducono il Collegio ad affermare che l'applicabilità della vecchia normativa è genericamente disposta in favore di tutti i soggetti invalidi, anche se con capacità di guadagno, perché l'unico requisito posto dalla legge riguarda la misura dell'invalidità che non deve essere inferiore all'80%. 
Errata è l'affermazione, contenuta nella sentenza impugnata, secondo cui "irrilevante risulta...la consulenza tecnica" espletata dal primo giudice ai fini del controllo del grado d'invalidità nella misura dell'80%, perché questo è l'unico elemento che va accertato in concreto; e non condivisibile è l'affermazione che non basta "la generica menzione degli "invalidi in misura non inferiore all'80 per cento"" per far ritenere che la legge abbia "accolta la nozione di invalidità civile. Anzi proprio la mancanza di qualsiasi altra specificazione è argomento che depone a favore della contraria interpretazione"; non condivisibile perché è vero esattamente il contrario, in quanto la genericità dell'espressione depone per l'ampiezza massima del contenuto normativo. 
Il ricorso va quindi accolto e la sentenza cassata. Sussistono le condizioni per la pronuncia nel merito da parte della Corte, ai sensi dell'art. 394 CPC, e per l'accoglimento della domanda nei termini di cui alla sentenza pretorile in data 29-10-98, (ivi compresa la statuizione sulle spese del giudizio di primo grado) non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto. Le spese del grado di appello vanno compensate fra le parti per giusti motivi mentre le spese del presente giudizio di legittimità vanno poste a carico dell'INPS e liquidate come in dispositivo.
 

P.Q.M.

LA CORTE accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, accoglie la domanda proposta da M**** C***** nei termini di cui al dispositivo della sentenza del Pretore in data 29-10-98. 
Compensa le spese del fase di appello. Condanna l'INPS al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 12,05, oltre ad Euro 1.500,00 per onorario. 
Roma 11 ottobre 2002